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Mi ha ridotto le ore lavorative perché incinta: il mobbing da maternità

Mobbing, la pratica che consiste nel perpetrare violenza psicologica, talvolta anche fisica, al lavoratore dipendente, al fine di indurlo a lasciare il proprio lavoro. Di per sé, un comportamento riprovevole. Quando associato alla gravidanza diventa ancora più ripugnante.

Mobbing da maternità

Il mobbing è un fenomeno sottostimato in Italia. La situazione è quella in cui il datore di lavoro, di sesso maschile, decide di esercitare il suo ruolo di boss oltraggiato, mettendo all’angolo una lavoratrice, che finisce col fare lavori sempre più marginali, vedendo le sue mansioni e ore lavorative ridotte. E tutto ciò perché? Perché rimasta incinta.

Con una dipendente in dolce attesa, considerando la sua gravidanza come una potenziale “risorsa a perdere”, il boss la mette in panchina, nonostante la dipendente in questione sia in perfetta salute, in grado di lavorare come sempre. Praticamente si vendica di lei.

Costretta a reagire, in modo più diplomatico possibile, la lavoratrice cerca di difendere i propri diritti. Ma poi le cose si fanno più serie, iniziano le vessazioni, le infide provocazioni della serie “vi avevo detto di utilizzare il profilattico”. E, quindi, si ricorre a metodi più drastici. Alle riunioni di lavoro si inizia a registrare le conversazioni con lo smartphone, rigorosamente nascosto sotto il tavolo. Insulti e diffamazioni. Tutto documentato.

Oscillando tra incubi che la perseguitano di notte e stress continuo di giorno, la lavoratrice si reca al sindacato, cercando soluzioni. Sogna il congedo di maternità, per iniziare ad usufruire quanto prima dei benefici legati alla sua condizione, ma conosce la legge italiana e sa che prima del settimo mese, se in salute, una donna non può smettere di lavorare.

Le dicono che proveranno a contattare il datore di lavoro, fare degli accertamenti o, eventualmente, delle intimazioni. Ma prima di coinvolgere lui, “proviamo in tutti i modi a mandarti in maternità anticipata”. Cosa? È quindi la vittima a dover correre ai ripari, raggirando la legge, mentre il datore di lavoro, artefice di tutte le ingiustizie, la passa liscia?

Una guerra a senso unico, lunga e logorante, che rimane spesso inascoltata

I casi di effettiva denuncia sono pochi, le ingiustizie tante. Sindacati e organi competenti che ogni giorno ricevono segnalazioni e raccolgono le più svariate testimonianze di donne vittime di mobbing da maternità, vedono la propria voce risuonare come un’eco che non riceve risposta.

Donne costrette al declassamento, al demansionamento, a subire ingiustizie e discriminazioni subdole, talvolta banali, ma non per questo meno gravi. L’Italia non è un paese per mamme, questa è la verità. Che la gravidanza sia già completa o ancora in corso, non fa differenza.

Inutile elencare il visto-rivisto-stravisto compendio di casi analoghi, riportano tutti alla stessa fonte: il mobbing sul posto di lavoro, ormai fin troppo diffuso, come testimoniano i dati dell’Osservatorio Nazionale Mobbing. E qui, ancora più forte, come sinonimo di disparità dei sessi, una piaga che continua ad esser presente, diffondendosi a macchia d’olio. Un fenomeno che riguarda il gentil sesso, “colpevole”, tra le altre cose, del peccato di gravidanza. Come se la scelta di avere figli ti etichettasse immediatamente come l’anello debole della catena di montaggio.

Purtroppo, in Italia, oggi, vince ancora la compassione per il capo che “poverino, certo che potevi aspettare prima di farti mettere incinta ora”.

– Vittoria Lolli